La Storia di Gioia Tauro - Dalle origini al '700
LE ORIGINI
Metauros (o Matauros), la città magno-greca da cui ha origine Gioja Tauro, sorgeva sulla riva destra del fiume Metauro (oggi Petrace) sviluppandosi probabilmente sull'altopiano coincidente con l'attuale centro cittadino. La sua esistenza è stata provata dai numerosissimi reperti archeologici conservati oggi al Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria nonché al Metropolitan Museum di New York, qui portate sul finire del 1800 dai primi emigranti. In quel periodo, infatti, si rinvennero delle terrecotte architettoniche che vennero quasi subito disperse sul mercato antiquario americano. Se ne auspica, da più parti, una loro collocazione nel Museo della Storia e delle Tradizioni Popolari della Città.
Nel 1956 e nel 1959, nel corso di due campagne di scavi promosse dal prof. Alfonso de Franciscis, allora sovrintendente alle Antichità della Calabria, vennero rinvenute, in contrada Due Pompe, molte tombe di un complesso sepolcrale di età ellenistico-romana.
La necropoli comprendeva 250 tombe ad inumazione e ad incinerazione e molti sono stati i corredi funebri venuti alla luce: anfore, coppe, lucerne, vasi geometrici, corinzi, jonici, attici e romani, con prevalenza dell'hydria, un tipico vaso greco con tre anse utilizzato per attingere l'acqua alle fontane. Lo studio delle anfore, specie puniche ed etrusche, potrà apportare un notevole contributo sui commerci tra Metauros e le città del Mediterraneo.
In località Pietra furono invece scoperti i ruderi di una casa romana, riconducibili con tutta probabilità al II secolo d.C., ove vennero ritrovati frammenti di condutture in piombo, lastrine in marmi vari che decoravano lo stesso edificio e numerosissimo materiale fittile come lucerne, chiodi e monete2 databili II – V sec. d.C.. Ancora nel 1959 sono state riportate alla luce alcune monete, recuperate sul fondo del Petrace. Sul retro di queste vi è una figura virile nuda, seduta su una roccia con in mano una pàtera ed ha innanzi un cane con la testa voltata indietro. In questa figura è da riconoscersi il fiume Metauro divinizzato. Ulteriori testimonianze rilevanti dell'esistenza di un centro abitato in periodo arcaico sono i resti di un tempio greco, di un acroterio rappresentante un gruppo equestre fittile databile 490-480 a.C., di due skiphos calcidesi l'uno con scena di accecamento di Polifemo (530-510 a.C.) l'altro con scena della caccia al cinghiale di Calidone e di pezzi di tegolini e di terracotta architettonica, tutti rinvenuti nella contrada Terre della Chiesa.
Nel 1973, in contrada Due Pompe, sono stati eseguiti degli scavi sotto la direzione della dott.ssa Elena Perotti e per conto della Sovrintendenza di Reggio Calabria. Nell'occasione vennero riportate alla luce i resti della necropoli, comprendente alcune tombe, delle lucerne e monili vari. Nei secoli II-III a.C. la necropoli è riusata, documentando così la presenza di un centro anche in età imperiale.
L'anno successivo furono effettuati altri scavi sotto la direzione del dott. Claudio Sabbione seguiti, nel 1975, ancora dalla Perotti fino al 1977 anno in cui ulteriori scavi hanno riportato alla luce 370 sepolture risalenti al VII sec. a.C. e, nell'area portuale, sono stati scoperti dei resti neolitici che potrebbero attestare un possibile rapporto di traffici commerciali con le isole Eolie e la Sicilia. Gli scavi continueranno fino al 1984.
Un totale di 1850 deposizioni a fossa ed incinerazione che attesta di per sè la vastità territoriale e demografica cittadina per quell'epoca. Sulla fondazione di Metauros i pareri degli studiosi sono discordi. Pare doversi affermare che, dagli oggetti rinvenuti nelle tombe quali le brocchette a corpo quasi cilindrico piuttosto frequenti a Milazzo, Reggio, Zancle (Messina) e Naxos, o le caratteristiche coppe con orlo leggermente svasato, conosciute soltanto a Zancle, Metauros fosse una sub-colonia di questa. E, quindi, alcuni la volevano edificata dagli antichi Zanclei anche secondo la seguente massima: "A Zancleibus Metaurum locatum, a Locrensibus Metapontum, quod nunc Vibo dicitur". Altri ritenevano che fosse stata fondata da Reggio d'accordo con quelli di Zancle (Messina) e che passò sotto Locri dopo la battaglia sul Sagra (oggi Alaro) del 548 a.C. contro i Crotoniati. Altri ancora hanno sostenuto che venne solo colonizzata dai locresi (Metauria Locrorum Aedificium).
E quest'ultima tesi viene considerata la più attendibile giacché nel 673 a.C. venne fondata Locri Epizephiri (l'odierna Locri). Trattandosi questa di una colonia di popolamento, la successione rapida degli stessi insediamenti verso l'interno indica come la colonizzazione sia divenuta una corsa all'accaparramento delle terre migliori. Superata, poi, la catena montuosa e raggiunto il versante ausonico (tirrenico) furono fondate altre colonie: Locri stessa fondò Medma (Rosarno) e Ipponio (Vibo Valentia) e si insediò in Metauros (Gioja Tauro).
La regione, non toccata fino ad allora da così imponenti correnti migratorie, subì quasi un assalto, tanto era l'entusiasmo, quasi pionieristico. Gli insediamenti furono così intensi tanto che le zone di popolamento vennero denominate Mègale Ellas (Magna Grecia) quasi a contrapporle, con gli spazi aperti e le grandi realizzazioni operate dai coloni, alla piccola Grecia metropolitana, dalle terre poco estese ed aride. Chi veniva a colonizzare non era certo il fior fiore delle città di provenienza; si trattava di avventurieri in cerca di fortuna, pratica e senza scrupoli.
La rapidità e l'intensità degli insediamenti greci attestano che si trattò quasi di un assalto concentrico, espressione di un irresistibile vitalismo nel mondo metropolitano greco di quel tempo. I coloni, guidati dall'ècista, importavano da Atene i prodotti artigianali da smerciare nelle aree interessate: bronzi, ceramiche, tessuti. A loro volta inviavano poi in patria i cereali prodotti localmente dopo rapida messa a coltura. E' indubbio che tali scambi crearono condizioni di prosperità sia in Metauros ed il suo comprensorio che in Grecia. Si verificava così l'importazione di culti, idee, costumi, dialetti del mondo greco che lasceranno un'impronta secolare nella zona.
Durante tutto il V' sec. a.C. le città della Magna Grecia, specialmente quelle del versante tirrenico, formarono ben presto una comunità così omogenea che fonti greche presentano come gènos Chalkidikòn, rivelandone le attive produzioni artigianali (le ceramiche, i bronzi, le grandi anfore attiche e corinzie che servivano per il trasporto delle derrate quali vino ed olio), i ricchi commerci e un notevole nonché vivace sviluppo culturale ed artistico (ben noto il 'nostro' Stesicoro). Su città tanto prospere e attive incombevano i popoli dell'entroterra appenninico (i Lucani) e, a poco a poco che il nome del piccolo popolo degli Itali venne ad allargare il suo significato comprendendo via via gli autoctoni dell'attuale pro-vincia di Reggio e poi in generale quelli dei due versanti (ac-comunandoli nella regione denominata Italia, l'attuale Calabria), tali popoli attirarono sempre più l'interesse di altri in relazione anche e soprattutto alla integrazione etnica che erano riusciti ad effettuare.
LA ROMANIZZAZIONE
Intorno al 445-400 a.C. Metauros venne invasa dai Bruzii (o Bretti, gruppo staccatosi dai Lucani) e, essendo una città di confine tra la Repubblica di Locri e quella di Reggio, venne continuamente devastata. Nell'agosto 1986 è stata scoperta, sui Piani della Corona presso Bagnara, una fortezza risalente al V sec. a. C.. Nel 406 a.C. giunse al potere, appoggiato dai ceti popolari, Dionisio il Vecchio (detto il Grande) che si preoccupò innanzitutto di affermare il proprio dominio sulla Sicilia orientale, poi intraprendendo una sistematica azione intesa a cacciare i Cartaginesi dalla Sicilia. La pace con Cartagine, del 392 a.C., che gli assicurò il controllo di Selinunte ed Imera, non gli impedì di rivolgere le sue mire verso la Magna Grecia.
Nel 386 a.C. conquistò Reggio, a causa dell'affronto subìto quando, richiesta in moglie una nobile fanciulla della città, i Reggini sprezzantemente gli avevano mandato la figlia del boia. Si alleò, quindi, con Locri (dove sposò Doride) e, con i Lucani, conquistò tutto il Bruzio e Metauros, città di confine, non venne distrutta.
Nel confuso intreccio degli avvenimenti circa la successione a Dionisio il Grande del figlio Dionisio il Giovane e della tentata conquista della Magna Grecia ad opera prima di Archidamo, re di Sparta, nel 341 a.C., poi dal suo successore Alessandro il Molosso, re dell'Epiro, nel 333 a.C., cominciò al-lora a comparire, nei fatti della Magna Grecia, anche il nome di Roma.
La stessa Roma aveva già improntato rapporti di amici-zia e di rispetto col mondo greco del tempo, anche per la sug-gestione che le veniva da una civiltà superiore.
I Romani, già attestati nel Sannio, non erano interessati alla conquista delle città magno-greche né avevano intenzione di cambiare atteggiamento. Sennonché, nel 282 a.C., la città di Thurii11, minacciata dai Lucani, anziché rivolgersi a Taranto per aiuti con la quale aveva buoni rapporti (anche per la diversità di regime aristocratico e democratico che la governavano) li chiese a Roma e questa decise di intervenire. I Lucani vennero ricacciati anche con l'ausilio di una squadra navale che appoggiava le operazioni dal mare.
I Romani, quindi, installarono una guarnigione a Thurii: altre guarnigioni furono accolte a Reggio, Locri, Ipponio (Vibo Valentia), Kroton (Crotone) e Metauros. Due anni dopo, nel 280 a.C., Pirro, re dell'Epiro, sbarcò a Taranto. La Magna Grecia si alleò prontamente dalla sua parte, dopo che il re fece promessa di lasciare l'Italia a vittoria con-seguita contro Roma.
Dopo alterne vicende, Pirro decise di chiudere la partita con Roma offrendo pace a condizione che fosse garantita l'indipendenza ai Tarantini e agli altri Greci e che gli Italici (Lucani, Sanniti e Bruzii) fossero reintegrati nei territori che i Romani avevano precedentemente occupato. Ma ogni prospettiva di pace svanì nel 278 a.C. al-lorquando una squadra cartaginese al comando di Magona, forte di 120 navi, si presentò avanti ad Ostia a scopo dimostrativo ed un nuovo trattato, il quarto, venne concluso fra Roma e Cartagine col quale le due potenze prendevano l'impegno di concludere la pace con Pirro solo di comune accordo e la implicita conferma dell'egemonia romana in Italia e di Cartagine in Sicilia.
L'urto successivo tra le due potenze, divenuto inevitabile dopo l'insediamento romano nella Magna Grecia, si prolungherà per più di un secolo e sancirà alla fine per Roma, e indirettamente per i suoi alleati d'Italia, il rango di potenza incontrastata nell'intero Mediterraneo. Nel 265 scoppiò la prima guerra punica e l'anno seguente il console Appio Claudio giunse a Rhegium (l'attuale Reggio) e da qui a Messina quando già in questa località la guarnigione cartaginese si era allontanata.
La rapida penetrazione in Sicilia non si presentò particolarmente difficile dovuta forse alle arti della diplomazia e della propaganda. Era sul mare che le cose andavano diversamente. Roma, mai stata potenza marinara (eccezionalmente era intervenuta dal mare a Thurii nel 282 a.C.), si trovava in difficoltà per mancanza di flotte. Allora nei cantieri delle città costiere di Ipponio, Metauros e Rhegium si lavorò febbrilmente per più mesi per approntare quinqueremi e triremi sul modello, queste ultime, di una nave cartaginese catturata. Si addestravano anche gli equipaggi, circa 30000 rematori arruolati in gran parte tra i contadini Italici, e per guadagnare tempo questi impararono a remare a terra seduti sui lidi e nello stesso ordine in cui si sarebbero poi sistemati sulle panche delle navi.
Nel 219 la seconda guerra punica fu per il Bruzio e la Città l'ultimo tentativo di Annibale di togliere dall'ambito romano la popolazione italica. I Romani iniziarono nel 209 la riconquista e la battaglia del Metauro13 del 207, con la morte di Asdrubale, tolse ad Annibale ogni possibilità di ripresa. Con la pace del 201 a.C. il dominio romano si estese a gran parte del bacino occidentale del Mediterraneo. I Romani provvidero a punire i popoli che avevano col-laborato con Annibale. Furono implacabili con i Bruzii, che in gran parte sterminarono e dispersero, riducendo ai servizi più umili i pochi superstiti.
I rapporti con le città ed i popoli rimasti fedeli continuarono ad essere regolati dagli antichi patti. La romanizzazione non era soltanto un fatto politico quanto piuttosto un fatto culturale di grande portata. Metauria (non più Metauros), Medma (Rosarno), Locri Epizephiri (Locri) e Rhegium (Reggio Calabria), alleate con Roma, sottostavano perciò agli obblighi di questa che limitava le città ai soli settori militari e della politica estera; l'indipendenza delle città era rispettata da Roma, nè la stessa Roma poteva imporre tributi ed oneri. Finita la terza guerra punica, le popolazioni locali "ottennero con la legge Giulia, la desiderata cittadinanza romana". Questo traguardo venne raggiunto dopo una cruenta guerra (90-88 a.C.) contro Roma in seguito alla costituzione della Lega Italica. L'avvenimento viene ricordato come guerra Sociale cui seguì la Civile e la Servile. Metauria venne considerata terra di conquista e perciò come "ager publicus populi romani" poteva essere venduta o data in affitto o assegnata a coloni o, ancora, donata ai veterani dell'esercito romano. Intanto la via Popilia, costruita su ordine del console Publio Popilio nel 130 a.C., aveva determinato nella zona un nuovo impulso di sviluppo dal momento che per quasi dieci anni le guerre a intermittenza avevano distrutto le città e le campagne. Più tardi, nel 77 a.C. vennero eseguiti nuovi impianti urbani con sistema ortogonale, con lavori di canalizzazione delle acque, fognature e sistemazione della rete viaria.
I finanziamenti provennero, presumibilmente, dai bottini di guerra che Silla aveva portato dall'Oriente. Nel 29 a.C., proclamato Cesare Ottaviano Augusto quale imperatore della Repubblica Romana, il territorio dell'impero venne diviso in circoscrizioni amministrative. Tutta la costa occidentale della Calabria, la Brezia, compresa nelle quattordici provincie imperiali, formò una regione di-stinta ed indipendente della Magna Grecia. Reggio e Locri, fa-cendo parte di questa provincia, non furono più in contrasto tra loro poichè i territori di loro competenza non erano più delimitati dai fiumi Metauro (Petrace) e Alex (Amendolea) mentre la città di Metauria, sotto il regno del conservatore Tiberio (14-37 d.C.), divenne "una semplice stazione navale col nome del vicino fiume Metauro".
Il successore di Tiberio, Gaio Cesare, passato alla storia col soprannome di Caligola, per via dei calzari che indossava, fece sperare ad un ritorno all'atmosfera distesa del tempo di Augusto. Ben presto le speranze in questi riposte svanirono subito a causa della totale mancanza di preparazione adeguata alle responsabilità di governo e rendendosi responsabile di enormi sprechi finanziari dovuti al preciso intento di perseguire l'idea di una monarchia a base religiosa di tipo faraonico. Per uscire da tale situazione, un gruppo di ufficiali e di liberti di palazzo, guidati dal tribuno del pretorio Cassio Chrerea, congiurarono contro Caligola che venne ucciso nel 41. Dopo questa 'parentesi', nel 69 d.C., Metauria, Taurianum (l'odierna Taureana fondata in quel periodo) e Rhegium, si rianimarono anche con la fusione di villaggi contigui fino al 166, anno in cui si manifestò la peste.
I cittadini metauriensi ripararono presso Taurianum posta su una leggera altura e abbastanza lontana dalle zone paludose. Successivamente, nel 189 d.C., una nuova ondata di pestilenza, determinò l'allontanamento definitivo della popolazione.
LA CADUTA DI ROMA E LE INVASIONI STRANIERE
Alla data convenzionale dell'inizio del Medioevo, Metauria si trovò nella periferia barbarica della "Nova Roma" (Costantinopoli, l'odierna Istanbul). Avendo occupato Roma il 24 agosto del 410 d.C. Alarico, re dei Visigoti, non riuscendo ad avere un insediamento stabile in Italia, si trasferì nel meridione ma, ammalatosi durante il passaggio dalla Puglia al Bruzio, si ammalò e morì a Cosenza l'anno seguente. Nel 476 l'Italia si consegnava ad Odoacre, re degli Eruli, Sciri, Rugi e Turlingi.
Nella primavera del 568 Metauria venne invasa dai Longobardi che la devastarono e distrussero costringendo gli abitanti a riparare nella Piana21. Le condizioni di questa terra erano poco felici e incombevano su di essa gravi minacce ad opera dei Saraceni. Più tardi neppure Carlo Magno nel suo grande acume po-litico si renderà conto dell'importanza di quel pericolo nè provvederà a fronteggiarlo adeguatamente. Dalla fine del VI sec. perciò e fino agli inizi del Mille, la popolazione si tenne lontana dai resti di Metauria a causa delle continue scorrerie dei pirati saraceni che raggiunsero l'apice nell’883; i superstiti si erano diretti all'interno, proprio dove il Marro si ramifica nella montagna. Qui avevano fondato Metau-rianova che, col passare del tempo, divenne Terranova.
L'occupazione saracena, stabile e ben organizzata, ridusse i pochi abitanti alle condizioni di vassalli (dsimmi), mentre la vicina Sicilia (già sotto gli Arabi) servì di base per incursioni nella regione e nell'Ausonio (Mar Tirreno). Gli invasori furono indirettamente favoriti dalla disgregazione del ducato longobardo in quanto l'anarchia generale spingeva i singoli a cercare appoggi dal di fuori. Così i Saraceni poterono stanziarsi a Metauria distruggendo chiese e monasteri vicini, imponendo forti taglie sugli abitanti e via di seguito. Subito dopo l'anno Mille, ripresero le scorrerie spingendosi anche all'interno, ma un fatto nuovo era destinato a mutare il corso degli eventi futuri. I Saraceni, nel 1004, saccheggiarono Pisa. Per tale motivo, i Pisani (allora notevole potenza marinara) nell'agosto del 1005, al largo della costa del golfo di Gioja, distrussero la flotta saracena in una memorabile battaglia navale che determinò l'abbandono di ogni velleità di ritentare gli assalti in Calabria e, soprattutto a Reggio, Metauria e a Taurianum.
SVEVI
Nel 1057 il duca Roberto il Guiscardo (= astuto) si impossessò di Reggio e l'anno seguente suo fratello Ruggiero occupò tutto il versante occidentale a nord di Reggio. Dopo varie contese i due fratelli decisero di condividere la signoria; Roberto assunse la sovranità dei territori conquistati e della Puglia (occupata nel 1053), mentre Ruggiero, col titolo di Conte della Calabria, stabilì la sua residenza a Mileto nel 1058 (tota Calabria in cospectu Guiscardi Ducis et Rogerii fratriis sui sedata siluit). Quest'ultimo, nell'occupare il versante occidentale reggino, distrusse il castello di Mileto, assediò Oppido e poi nella Vallis Salinarum (o Valle delle Saline, come veniva anticamente chiamata la Piana di Gioja Tauro) sbaragliò completamente coloro che gli si erano opposti. Roberto, audace quanto abile, si rese subito conto che urgeva coordinare le varie signorie normanne che andavano costituendosi ed era necessario dare un riconoscimento legale a quello che era stato occupato con fortunati colpi di mano: ma a chi rivolgersi? I due imperi erano contrari, perché quello orientale era danneggiato dalla avanzata normanna e quello d'Occidente non avrebbe mai rinunciato alle sue pretese di sovranità su queste terre; d'altra parte era prematuro sperare in un appoggio del papato, assai legato all'impero e preoccupato dei nuovi, potenti, vicini. Altre circostanze modificarono la situazione.
Nel 1081, morto Roberto il Guiscardo, Ruggiero divenne conte della Sicilia e delle altre terre che allora erano sotto il dominio del fratello. Ai Normanni successero gli Svevi intorno al 1100 con Federico II. Si ebbe così una divisione del territorio Bruzio in due 'capitanerie generali': dal Tronto a Cosenza e da qui alla estremità della Sicilia. Undici giustizierati fra i quali la Val di Crati, la Terra Giordana e la Calabria, retti da capitani, da notai, ecc. (nelle città considerate proprietà demaniali esercitavano il potere i 'baiuli' e i giudici eletti dal potere centrale). In questo periodo (1100-1271) non vi è alcuna traccia della Città con la denominazione di Metauria. Riappare nel 1271 in un registro di Carlo I d'Angiò in cui si rileva che il vescovo di Mileto possedeva i tenimenti di 'Vita e chala' in Johe (nome attribuito a Metauria) ed un certo Raymundo de Gentumvilla, custode delle foreste, veniva ammonito a non molestarlo.
Allo stesso Gentumvilla venne affiancato nella custodia di dette foreste un certo Enrico Vulnay, valletto e familiare del Re. In questo periodo si rilevano atteggiamenti di sovrani meridionali che vanno ricordati per quanto rappresentanti di ideali politici voluti e perseguiti pur nella convinzione di una pre-vedibile sconfitta o nella speranza di una difficile affermazione. La rivolta dei Vespri aveva acceso l'animo di Carlo I il quale, dopo un tentativo, fallito, di conquistare Messina e dopo aver subìto una pesante sconfitta il 14 ottobre 1282 nel golfo di Gioja, affidò il comando delle sue truppe al figlio Carlo II che, non molto tempo dopo, si accampò col suo esercito nella Piana. Il 30 marzo 1283, nell'imminenza dell'invasione aragonese, questi convocò in Johe un "parlamentum" a cui presero parte, oltre al pontefice Onorio IV, dignitari, ecclesiastici, feudatari e rappresentanti della Città e del circondario. Nell'occasione furono approvati una serie di norme (47 capitula). Un mese dopo Carlo II si ritirò presso Nicotera e qui vi rimase per sette mesi attendendo l'occasione favorevole per attaccare. Fu, invece, l'esercito aragonese a muovere per primo nel giugno 1284 attestandosi a Johe ove i soldati vennero colpiti dalla malaria.
LA SUCCESSIONE ANGIOINA
Nel registro di Carlo II d'Angiò del 1305 Johe figura come possedimento di Ruggiero di Lauria e seguì, pertanto, le vicende del casale di Terranova. Non molto tempo dopo il possesso è di Nicolò Joinville. Alla morte di Carlo II, avvenuta il 5 maggio 1309, Roberto d'Angiò detto il Savio gli succede subito dopo. Al Savio successe il figlio Carlo e la morte di questi facilitò l'allontanamento dalla Città, e dalla regione tutta, del controllo angioino. Non rimanevano allora, come eredi diretti di Roberto, che due figlie di Carlo, ancora bambine, Giovanna e Maria, mentre invece abbondavano i parenti collaterali. E' ben comprensibile come gli appetiti dei parenti volgessero a influenzare Roberto per una decisione circa l'eredità della corona.
IL QUATTROCENTO – IL REGNO DI LUIGI I D'ANGIO'
Nel regno di Luigi I d'Angiò (o Lodovico), Roberto Sanseverino aveva ottenuto il contado di Mileto. Egli fu ciamberlano e maresciallo del regno e, dopo avere ereditato il casale di Terranova dalla zia materna Margherita di Laurìa (o dall'Oria, tra l'altro sposata a Nicolò Joinville) nel 1341, ebbe il possesso di Gioja che continuò ad essere tenuta da suo figlio Ruggiero e poi da Roberto nel 1390 e dal suo erede Enrico Sanseverino, detto il Ribelle, conte di Terranova e signore di Gioja che venne ucciso nel 1422 per ordine del re Ladislao.
L'anno seguente lo stesso Re concesse i possedimenti a Saladino Sant'Angiolo (o Santangelo) e, alla morte di questi, non avendo nessun erede, nel 1425 la regina Giovanna II li donò a Ser Gianni Caracciolo cui successe il figlio Tommaso, marchese di Gerace e conte di Terranova, che cospirò contro Alfonso il Magnanimo e suo figlio Ferrante, duca di Calabria. Scoperta la cospirazione e imprigionato il 14 agosto 1454 a Castel dell'Ovo a Napoli, venne istruito un lungo processo dove vennero ascoltati ben 32 testimoni giunti dalla Calabria, dando al Caracciolo ampie possibilità di difesa. Il processo iniziò nel 1455 e due anni dopo, il 13 dicembre, il Caracciolo venne condannato a morte per decapitazione, pena commutata poi in carcerazione a vita.
LA CONGIURA DEI BARONI
Alfonso 1'attirò a sè Carlo Ruffo, conte di Sinopoli, affidandogli l'incarico di conquistargli la Calabria, ma questi fallì nell'impresa. Fu soltanto il valore e l'abilità di Antonio Centelles (o Centeglia) che riuscì a sottomettere l'intera regione per l'aspirante Re. Infatti, nel 1443, Alfonso salì al trono ed il Centelles - ribellatosi a lui - sollevò i partigiani angioini in Calabria. A favore di quest'ultimo intervennero i capitani di Renato d'Angiò conte di Provenza: Giovan Battista Grimaldi e Baldassino i quali, tra l'altro, distrussero e incendiarono Gioja nel 1444. Alfonso mise fine alla rivolta, perdonò il Centelles lasciandogli solamente il possedimento di Gerace (non a caso il Re veniva soprannominato "il magnanimo"). Ed infatti, il 10 febbraio 1449 concesse a Giovanni d'Alagno (fratello della sua bellissima amante) "la gabella della grana sei per onza e scafaggio del mare nella marina della terra di Gioja con il possesso di Borrello e di Rosarno. Morto Giovanni d'Alagno nel dicembre 1452, la gabella divenne appannaggio del fratello Ugo che, il 5 maggio 1455, fu nominato Gran Cancelliere del Regno nonché conte di Borrello e di Gioja.
Il 23 gennaio 1453 Alfonso 1' concesse a vita alla famiglia Toraldo la stessa gabella, non più di sei grana per onza, ma di quindici. Si ha notizia che solo nel 1455 un rappresentante della famiglia Toraldo si presentò per riscuotere direttamente tale tributo.
L'EREDITA' DI ALFONSO IL MAGNANIMO
Il Magnanimo ha un motivo specifico per potenziare il Regno: riunire i due tronconi (quello continentale e quello insulare divisi dal 1282), per il quale veniva di solito adoperata la formula Siciliae Ultra Pharum e Citra Pharum o, pure, Utriusque Siciliae, e lasciarlo al figlio naturale Ferdinando (detto Ferrante) natogli nel 1423. Prima di morire, il 1° gennaio 1458, Alfonso donò i beni confiscati di Tommaso Caracciolo (la contea di Terranova coi casali di Gioja e San Giorgio) a Marino Correale già conte dal 1443. L'eredità per l'illegittimo Ferrante non fu facile; i nobili locali - favoriti oltre misura dal padre per averli amici - si mo-strarono insoddisfatti e Ferrante dovette ridurre il peso fiscale per tenerli buoni per qualche tempo. Gioja passò nel 1479, per 80.000 ducati, sotto il dominio del barone Aniello Arcomone (o Arcamone). Fu il nuovo papa, Innocenzo VIII, ad attizzare il fuoco della ribellione baronale contro il Re, anche perchè si verificò uno sperpero di risorse che, obbligando Ferrante ad inasprire la pressione fiscale, preparò il terreno alla famosa 'Congiura de' Baroni' dal Re spietatamente repressa tra il 1485 ed il 1486.
Già il 7 giugno 1484 Ferrante ordinava ai vassalli di Gioja, Terranova e Policastro di giurare fedeltà al suo inviato Giovan Antonio Petrucci, conte di Policastro e confermava il possesso, due anni dopo, a Rainero de Marzano di una casa con giardino a Gioja ed un vigneto a Terranova pervenutigli in dono dallo stesso Petrucci e dal padre di questi, Antonello. Tra i ribelli vi è Antonello Petrucci, segretario del Re e cognato di Aniello Arcomone, Pirro del Balzo, principe di Al-tamura, ed i fratelli Sanseverino. L'11 marzo 1487 Ferrante donò la Città a Ludovico il Moro, come ricompensa per averlo aiutato nella risoluzione della congiura e, nel maggio dello stesso, fece arrestare il barone Arcomone. Finchè visse Ferrante tutti i baroni rimasero in prigione ma poi, con Ferdinando II, vennero liberati nel febbraio 1495.
LE GUERRE FRA GLI SPAGNOLI ED I FRANCESI
A Ferrante successe il figlio Alfonso, duca di Calabria il quale conferiva, il 10 aprile 1494, a Marino Pantano la patente di capitano delle terre di Terranova e di Gioja. Quell'anno, nell'impossibilità di trovare in Italia adeguati consensi, per estendere i suoi poteri in tutta la penisola, Ludovico il Moro si rivolse al Re di Francia, Carlo VIII, che dai baroni napoletani era sollecitato ad un'azione contro la monarchia napoletana. Con tremila soldati ed un reggimento di fanteria Carlo VIII scese in Italia senza trovarvi resistenza, nell'agosto 1494, e ordinò che fossero sospese le entrate fiscali di Ludovico il Moro a Gioja e Rosarno. Inutile fu, il 22 febbraio 1495, l'abdicazione di Alfonso II in favore del figlio Ferrandino (Ferdinando II).
Il 20 marzo Carlo VIII, temendo di rimanere chiuso nel sud della penisola, se ne ritornò in Francia lasciando le forze militari a presidiare il Regno incaricandovi il capitano generale, duca di Montpensier, Gilberto. Eberardo Stuart (Monsignor d'Aubigny), nominato da Carlo VIII Gran Connestabile del Regno, venne invece incaricato di governare la Calabria. Ferdinando II nutrì, allora forti speranze per la riconquista del Regno e, alleatosi col generale dell'armata veneziana, Antonio Grimani, riconquistò dapprima la parte più a sud della Calabria (l'attuale provincia di Reggio). Il re Ferrandino ed un suo generale, Consalvo, si diressero, nel giugno 1495, alla volta di Seminara con un esercito di 6000 uomini dove da lì a poco sarebbe avvenuta una "orribile e sanguinosa battaglia, con grande uccisione di Francesi" (a loro volta 400 corazzieri e 800 cavalleggeri); la città venne riconquistata da Ferdinando II "con grande allegrezza di tutti i cittadini. Lo scopo di Ferrandino e Consalvo era di occupare tutta la regione e puntare con tutte le forze a Napoli. Monsignor d'Aubigny, governatore della Calabria, intese le intenzioni dei due e, facendo giungere dalla Lucania il capitano Persio d'Alegra, s'avviò anch'egli da Terranova (ove dimorava) verso Seminara.
Quest'ultimo, giunto presso San Leo, volle sfidare Ferrandino. Il Re accettò, convinto (come erroneamente gli fecero credere le spie) che il suo esercito fosse numericamente più forte di quello francese, ed intraprese la battaglia il 21 giugno 1495, sebbene il gran capitano Consalvo avesse tentato più volte di dissuaderlo. Ferrandino attestò le sue truppe sulle sponde del Petrace, di fronte a d'Aubigny, disponendovi a sinistra i fanti e la cavalleria a destra, come un'ala, in attesa della prima mossa del nemico. Lo Stuart e d'Alegra schieravano gli Svizzeri contro gli Spagnoli, disposero che le compagnie Calabresi si stabilissero alle spalle per proteggerli e, oltrepassato il fiume, iniziarono le ostilità. Dopo aver subìto gravissime perdite, il Re Ferrandino riconobbe l'errore commesso e dopo aver riparato prima "a Palma (Palmi), che è in sul mare vicino a Seminara, montato in sull'armata, si ridusse a Messina".
Consalvo rientrò a Seminara e, da qui, impossessandosi "di tutte le cose di maggior prezzo, ricoverò a Reggio" dopo aver ricevuto l'incarico dal Re di proseguire la guerra. Il territorio ritornava in possesso di d'Aubigny che, già provato da una lunga malattia, si stabilì a Gerace. Il Gran Capitano, fortificatosi a Reggio, credette opportuno niziare la riconquista e, insieme al cardinale d'Aragona, si addentrò per la Calabria occupando Crotone, Nicastro, Seminara e Terranova nel febbraio 1496. Consalvo non trovò resistenza e d'Aubigny pensò bene di rientrare in Francia. Con la ritirata dei Francesi, Ferrandino cominciò a riordinare il Regno ma non potè proseguire nel suo intento poichè la morte lo colse giovanissimo il 7 settembre 1496. Gli succede lo zio Federico II d'Aragona in quanto non vi erano eredi.
Questi (che sarà l'ultimo Re di Napoli) il 19 ottobre concesse Terranova, con Gioja e San Giorgio a Vincenzo Caraffa, suo maggiordomo54 (già possedimenti di Marino Correale fino al 1490, anno della morte di questi a cui nessuno successe non avendo avuto figli).
IL REGNO DI NAPOLI ALLA SPAGNA
L'INTERVENTO SPAGNOLO IN CALABRIA
L'11 novembre 1500, Francia e Spagna conclusero il trattato segreto di Granada, ratificato da Luigi XII', duca di Orleans, e da Ferdinando il Cattolico, con il quale si spartivano il Regno di Napoli conquistato con le proprie forze. A Ferdinando spettò la Calabria. Si svilupparono così le premesse poste dal primo inter-vento spagnolo contro le truppe di Carlo VIII. Tutta la vicenda si svolse in modo diverso da quello stabilito negli accordi. Dopo l'entrata francese nel Regno di Napoli e la caduta degli Aragonesi, francesi e spagnoli vennero a conflitto. Nell'agosto 1501 Ferdinando il Cattolico, duca di Calabria, cadeva nelle mani di Consalvo di Cordova. Il 12 aprile 1502 quest'ultimo otteneva in feudo perpetuo, da Ferdinando e da Elisabetta, il casale di Terranova col titolo di duca, le terre di San Giorgio e Gioja con tutti i casali e vassalli pertinenti ad esse56 ed inoltre divenne, sempre in quell'anno, marchese di Gerace, costituendo l'unica signorìa feudale calabrese che avesse sbocchi sullo Jonio e sul Tirreno.
LA BATTAGLIA DI GIOJA (O DI SEMINARA)
Poco tempo prima, il 1' aprile 1502, nel determinare i confini, tra il vicerè di Francia, Luigi d'Armignac (duca di Nemours) che risiedeva a Napoli ed il vicerè Consalvo erano sorti dei dissidi a causa della Capitanata. Il duca di Nemours non volle attendere la risoluzione della vertenza tra i rispettivi sovrani e, convinto della superiorità numerica delle sue forze militari, occupò, il 19 giugno, la Capitanata. Consalvo riparò a Barletta mentre nel frattempo monsignor d'Aubigny occupava la Calabria, stabilendo un formidabile presidio lungo tutto il territorio costiero di Gioja. In aiuto della popolazione della Piana venne don Ugo di Cardona. Questi, forte di tremila fanti e di trecento cavalli giunse a Seminara, col chiaro intento di aggirare l'esercito francese. Si diresse, quindi, verso Terranova per soccorrerla camminando per una pianura ristretta tra la montagna (l'Aspromonte) e la fiumara (il Marro). I Francesi, superiori di numero, gli andavano incontro dal Petrace, mirando a tirare gli Spagnoli al largo. Costoro, intuite le intenzioni, mossero contro l'esercito di d'Aubigny e sostennero una prima battaglia che consentì loro di attestarsi a Terranova. In questa località il Cardona, comunque, non si sentiva sufficientemente al sicuro e, avuto notizia che i Francesi si stavano riarmando, decise di spostare le sue truppe altrove. Ma, nella notte, d'Aubigny attaccò: era il 26 dicembre 1502. Cardona riparò presso Gerace dal momento che il suo esercito non era in grado di sostenere la battaglia.
Nel conflitto perse la vita monsignor di Grignì; d'Aubigny, anch'egli in pericolo, venne tratto in salvo dal principe di Salerno, Sanseverino. Nel frattempo Consalvo, che si trovava assediato a Barletta dal d'Armignac, venne informato dell'accaduto. Il re Ferdinando preparato un esercito molto forte mosse dalla Sicilia in aiuto del suo vicerè e, per la popolazione della Piana, inviò dei rinforzi sotto gli ordini del capitano Puerto Carrero (o Porto Carrero, della nobile famiglia Boccanegra di Genova), tra l'altro cognato di Consalvo avendo sposato la sorella di questi. Il Carrero fa appena in tempo a sbarcare a Reggio poichè morirà subito dopo. Tuttavia riesce ad affidare il comando delle truppe al capitano d'Andrada il quale si dirige verso Terranova. Monsignor d'Aubigny, informato di ciò, ritorna in questa località per espugnarla ma, preventivamente, l'Alvarado59 si ritira nello stesso luogo dove sette anni prima avevano combattuto Ferrandino e Consalvo. Il d'Aubigny, riconosciuta la zona di San Leo e ritenendola un'ottima occasione per iniziare le ostilità con gli Spa-gnoli, inviò ai nemici un araldo, Ferracuto, riferendo loro con parole superbe e offensive che li sfidava in battaglia. Fatto il passo, d'Aubigny si ritirò in quanto gli Spagnoli si avvicinavano a Seminara e lo minacciavano di fronte e dalla destra (da Terranova).
Don Ugo di Cardona era in prima linea insieme a Ferdinando d'Andrada e al fratello Giovanni fatto arrivare con la fanteria. Monsignor d'Aubigny attraversò il Petrace e si diresse verso Gioja nella speranza di cogliere di sorpresa il drappello spagnolo che vi si dirigeva e da dove poi egli, sosteneva, avrebbe potuto condurre vittoriosamente la battaglia perchè il territorio era pianeggiante. Il 14 aprile 1503 gli Spagnoli riconobbero le insegne francesi e muovono anch'essi verso la Città. La battaglia fu inevitabile ed il Corvagiale, giunto alle spalle dei Francesi, fece tanta paura a costoro che lo stesso d'Aubigny, disorientato, si ritirò rapidamente con le sue truppe. La cavalleria di Ferdinando d'Andrada sconfisse Alfonso Sanseverino nel momento in cui questi portava i soccorsi allo Stuart (d'Aubigny) e, di lì a poco, anche il fratello Onorato subì la medesima sorte. Sfuggito alla cattura, Monsignor d'Aubigny si diresse nuovamente verso Gioja dove gli venne riferito che gli Spagnoli gli stavano dando la caccia. Si avviò, quindi, alla sicura rocca di Angitula (nei pressi di San Leo) insieme al capitano Malherbe e lì venne assediato dal capitano d'Andrada che si attestò ad un centinaio di metri dalla rocca stessa. Nel frattempo a Barletta, Consalvo riesce a sbaragliare i nemici, grazie ai rinforzi giunti dalla Sicilia e si avvia verso la Calabria. Ma, prima che questi potesse giungere nella Piana ed affrancare le truppe del capitano d'Andrada, monsignor d'Aubigny, informato di questi sviluppi, decise di arrendersi nello stesso luogo che sette anni prima lo aveva visto vincitore su Ferrandino e Consalvo stesso.
Era il 21 aprile 1503: Ferdinando il Cattolico restava padrone di tutto il Regno mentre il 16 maggio seguente Consalvo entrava a Napoli accolto dai deputati ed il giorno dopo, giurata fedeltà al Re, venne nominato vicerè del Regno di Napoli. Sotto il governo del Gran Capitano Gioja godette di un periodo di serenità; venne fortificata ed i traffici si intensificarono specialmente con i paesi dell'interno quali Pollistrine (Polistena) e Terranova. Il 2 dicembre 1515 Consalvo moriva e (non avendo avuto figli maschi) gli successe la figlia Elena nell'eredità dei feudi di Gioja, Terranova, San Giorgio e Pollistrine. Costei, il 3 dicembre dell'anno seguente presentò alla Corte napoletana il 'relevio', una sorta di esercizio finanziario dell'epoca, scrivendovi che le attività lavorative nei boschi di Terranova e Gioja avevano reso 166 ducati netti.
LE INVASIONI DEI PIRATI E DEI CORSARI – L’ ASSALTO A REGGIO
Il 28 agosto 1511 i pirati turchi fecero la loro prima apparizione allorquando, sbarcati a Calamizzi con una flotta di sessanta legni e guidati dal terribile Ariadeno Barbarossa, assaltarono Reggio e la assediarono per tre giorni.
CARLO D'ARAGONA
Alla morte di Ferdinando d'Aragona, in quella accanita campagna elettorale, Carlo (figlio di Filippo il Bello) riuscì a superare tutte le incertezze e le perplessità ottenendo il voto unanime dei principi elettori e, il 28 giugno 1519, venne eletto imperatore col nome di Carlo V.
ASSALTO A GIOJA
Nella notte del 21 aprile 1535 Gioja venne attaccata dai pirati ed i seguaci del Barbarossa ("un suo parente che si chiama Cacciadiavoli"), riusciti a sbarcare da alcune galere dell'armata in un punto imprecisato della costa, sostennero una cruenta battaglia contro gli ottanta soldati del capitano Francesco Ruiz che erano riusciti ad avvistarli. "Il capitano appena vide ormeggiate dieci tra galere, galeazze e fuste, mandò una parte dei soldati in avanscoperta. Questi furono fatti prigionieri. Allora il Ruiz, con trentacinque archibugieri si lanciò contro i pirati per tentare di liberare i suoi uomini e, sebbene i nemici fossero oltre 500, attaccò ugualmente per non demoralizzare i suoi soldati. Nello scontro che seguì quattro uomini furono uccisi, dieci o dodici feriti ed altrettanti fatti prigionieri. Questi, riscattati subito dopo, riferirono al capitano che anche i Turchi ave-vano perso otto uomini ed i feriti erano più di venti. Allora il Ruiz si ritirò su di un'altura e, nel mentre i Turchi tornavano all'attacco, 'loro vedendo la mia determinazione ritornarono indietro ad imbarcarsi sulle proprie galere'"
Tuttavia, essendo stato informato da alcuni forzati che per la notte era attesa una nuova incursione, il capitano Ruiz si fece raggiungere da tutta la compagnia. Il 3 novembre Carlo V, a causa delle frequenti scorrerie dei pirati, dopo aver visitato Reggio e trovandosi ora a Seminara, ordinò che fossero rafforzati i presidi delle città. Il vicerè di quel tempo, don Pedro de Toledo, con or-dinanze del 1532-33, dispose la costruzione di nove torri ubicate tra Capo Vaticano e Scilla (tutto il Golfo di Gioja Tauro) da cui si sarebbe potuto dare in tempo l'allarme all'apparire delle galere turche e algerine. Le prime torri vennero completate nel 1565.
Intanto nel 1540 Gioja, Terranova, San Giorgio e Pollistrine passavano in eredità a Consalvo, duca di Sessa, figlio di Elvira. Lo stesso anno, il vicerè de Toledo andò a Reggio accompagnato da Consalvo ove, ordinata la riedificazione della città dello Stretto, fece costruire un castello, completando il programma delle fortificazioni. In ogni torre vi stavano due persone di guardia che, con segni convenzionali, avrebbero provveduto a dare l'allarme alle popolazioni; la costa era pattugliata dalle guardie a cavallo, i Cavallari. Sulla spiaggia di Gioja venne costruita una torre di guar-dia e nel villaggio (l'attuale Piano delle Fosse) cinto di mura, sorsero delle torri quadre che, disposte agli angoli, avrebbero protetto l'abitato. La domenica delle palme del 1568 vi fu uno sbarco di pirati con razzia di un notevole numero di cittadini. Tra il 1560 ed il 1564 Consalvo vendette le sue terre a Tommaso de Marinis di Genova. Questi, lasciata una pupilla e molti debiti, fu costretto dal Sacro Regio Consiglio a vendere all'asta i suoi possedimenti. A Napoli, il 10 marzo 1574, Pasquale Grimaldi, figlio di Battista (sposato con Maria Spinola) del fu Girolamo di Genova, a nome del padre, comprò per 275.000 ducati (poi arrotondati a 280.000) le terre di Terranova, Gerace e Gioja rinunziando alla baronia di San Nicola ed Ardore. Nel 1582 a Battista Grimaldi seguì Giovan Francesco Grimaldi da Genova (sposato con Lelia Spinola); a lui seguì Girolamo, suo primogenito (sposato a Benedetta Pinelli) che venne ricordato come colui che diede fiducia alla popolazione gioiese che era rifugiata nelle campagne vicine per il fondato timore di scorrerie piratesche.
Verso la fine del 1600 un celebre bandito, Rainaldo, di notte si impossessò di tutte le cose sacre in custodia di una certa Costanza Granata che le deteneva poiché non vi erano preti nella zona. Il bandito, braccato dagli uomini della giustizia, si rifugiò in una torre di guardia (detta di don Giacomo - che nel 1616 era sottoposta alla vigilanza del caporale Francesco di Reggio -) trovando un momentaneo rifugio; poi, nel tentare la fuga la notte seguente venne ucciso con un colpo di archibugio. Nel 1623, a causa delle frequenti liti che dividevano la fa-miglia Grimaldi, vi furono tutta una serie di nomine per il go-verno di Gioja da parte del governatore di Calabria Ultra, Lorenzo Cenami. Questi la affidò al governatore di Monteleone (Vibo Valentia) Francesco Suarez de Figueroa il quale, ignaro della nomina, venne sostituito subito dopo da Giovanni de Mendieta. Sennonchè il Figueroa, avuto sentore della commessa patente di capitano della Città, vi si recò solo per essere onorato di quella nomina; ben presto se ne ritornò a Monteleone. La notte del 24 giugno 1625 Gioja venne assaltata dai corsari sbarcati da cinque galee. Appena vennero notati i pirati, i Cavallari fecero il loro dovere segnalando tempestivamente il pericolo, ma non vennero creduti. Quando il pericolo si appressò, colui che era in possesso della chiave di una torre, preso dal panico, si diede alla fuga ed i poveri gioiesi furono costretti a rifugiarsi in due torri quadre. In un primo tempo riuscirono a difendersi, ed anche ad uccidere alcuni pirati, ma i Turchi decisero di dar fuoco alle case limitrofe e, quindi, coloro che non perirono tra le fiamme vennero fatti prigionieri e portati come schiavi in Tunisia.
Il RIGGIO pubblica un elenco di coloro che furono riscattati in seguito. - 26 gennaio 1628: Gregorio Marano paga a Minico Barbara 160 pezze da 8 reali per riscattare la figlia Maria; - 11 marzo 1631: Angela Pizzillo di cinque anni viene riscattata dalla madre Caterina pagando al corso Pietro Maria Aduardo ben 300 pezze da 8 reali; - 7 agosto 1634: Elisabetta Schianggia da Gioja, schiava di Caramamet, viene liberata dopo avere rimesso la somma di 160 pezze da 8 reali a Francesco della Lama per la Redenzione di Napo;. - 14 settembre 1635: vengono riscattati Gio. Varlo Neri e Cianecia Pugliese, schiavi di Mamet Maccamaccha per 220 pezze da 8 reali; Francesca di Beneditto, schiava di Caid Giafer, con 250 pezze da 8 reali; Nuntia La Motta, schiava di Mamet Bey, per 250 pezze da 8 reali; - 10 ottobre 1635: con il versamento di 150 pezze da 8 reali a Francesco della Lama, veniva riscatta Isabella Campece; - 8 ottobre 1640: venivano liberate Giulia, Alfonsina e Galilea Riggio, schiave di Sidi Soliman per 950 pezze da 8 reali al mercante napoletano Marc'Antonio Paulelli.
Dopo questo grave fatto Girolamo Grimaldi, signore di Gioja e principe di Gerace, rinforzò il villaggio e facendo ottenere alla Città gli stessi privilegi di Manfredonia in quanto aveva un ottimo scalo. L'imbarcadero (presumibilmente alla foce del fiume Petrace) era molto attivo considerato l'afflusso di legname che proveniva da Santa Cristina d'Aspromonte e che veniva poi inviato a Catona. Inoltre il Grimaldi aveva richiesto al governo centrale di Napoli uno sgravio fiscale a causa delle frequenti scorrerie di pirati. Il 24 aprile 1626, quasi un anno dopo, venne concessa l'immunità che cessava di avere vigore due mesi dopo.
Giovan Battista Grimaldi comprò poi la contea di Gerace, con i feudi a questa appartenenti, e fu il naturale successore dei conti Grimaldi principi di Gerace, duchi di Terranova, marchesi di Gioja (titolo incardinato nel 1654) e signori di Monte Sant'Angelo.
IL CROLLO DELLA DOMINAZIONE SPAGNOLA
NUOVE INCURSIONI DI PIRATI
Nel 1638, in maggio, per il fondato timore di scorrerie di pirati (che molto probabilmente avrebbero assaltato le marine in estate), il vicario generale Giovan Tommaso Blanch dispose che i torrieri di Tropea, Joppolo, Cuccorino (l'attuale Coccorino), Nicotera, Rosarno, Gioja, Palmi, Bagnara fossero messi in stato di allarme con il supporto della "nova melitia del Battaglione cossi' appiedi come de accavallo, bene armati e con cavalli atti et habili al servitio militare".
Infatti, il 5 giugno seguente, il Blanch aveva ricevuto un dispaccio dal comandante del battaglione, capitano Maurizio Cesareo, che lo informava della prossima venuta dei pirati e subito dispose che fossero rafforzate le difese di Nicotera, Rosarno, Gioja e Bagnara. L'invasione vi fu, puntuale, a Nicotera (il 20 giugno) ed il Blanch, informato dell'accaduto, ordino' che i responsabili, negligenti della difesa della citta' di Nicotera, fossero arrestati ed ammoni' i "magnifici Sindaci Eletti, et altri a chi spetta delle me-desime terre di Rosarno e Gioja che al ricever della presente, senza perder momento di tempo, facciano star disposte le donne, et figliuoli di quindici anni in bascio, et vecchi di sessanta anni in su perche' d'ogni avviso di vascelli d'inimici si possano ritirare in luogo sicuro in maniera che la gente atta all'arme possa resistere e combattere in tempo di bisogno" disponendo che coloro i quali non avessero ottemperato subiva una pena di 100 ducati. Le disposizioni non finirono qui. Si ordinava ai Sindaci, gli Eletti ed ai Capitani di Rosarno, Gioja, Drosi di ritirarsi al-l'interno per dieci miglia "portandosi con loro tutti i beni mobili et robbi di casa a fine la gente atta all'armi, perche' in scopo di bisogno possa resistere et combattere". Nel 1653, in seguito alla riforma operata dal papa Innocenzo X', fu soppresso il convento basiliano a Gioja .
LA PESTE ED IL PIAN DELLE FOSSE
Tre anni dopo vi fu la peste che arreco' immani rovine ed ovunque desolazione; non vi era luogo abitato in cui non si predisponevano riserve di cereali e di altri generi di sostentamento. E' dell'epoca la costruzione nel villaggio (oggi e' il rione 'Pian delle Fosse') di ampie fosse, scavate nelle vie acciottolate le quali, in terreno asciutto e con pareti ben solide, servivano come deposito di grano e di derrate in genere rimanendo chiuse per impedire all'acqua di infiltrarsi. Le poche famiglie che vi dimoravano (nel 1669 appena venti) lasciarono il villaggio per cercare fortuna a Palmi che era divenuta, con Seminara, un grande centro commerciale . Piu' tardi, nel 1693, l'abate Pacichelli nel visitare la Calabria disse che solo Gioja e Drosi 'in aria inclemente' sono spo-polate anche se attorno ai centri urbani la natura e' molto generosa ed il terreno fertilissimo.
L'INCORONAZIONE DI DON CARLO (CARLO III)
Crollava, nel 1707, la dominazione spagnola, senza alcun spargimento di sangue, per merito del maresciallo Daun e, quindi, si passo' sotto la denominazione asburgica. Gli Asburgo d'Austria erano cosi' divenuti, senza pro-vocare inutili scosse, i nuovi padroni. La prospettiva di una nuova monarchia universale, derivante dall'unione della Spagna e dall'Impero nella persona di Carlo VI, induceva allora le potenze marittime ad affrettare l'apertura di trattative di pace con la corte francese. La pace di Aquisgrana segnava la fine delle lotte durate un cinquantennio (1698-1748), fra Spagna e Austria. L'Austria dovette rinunciare ad ogni proposito di rivincita nell'Italia meridionale. Gli Spagnoli videro finalmente riconosciute le vecchie aspirazioni sofferte da Elisabetta Farnese: veniva cosi' assegnato a Don Carlo, suo primogenito, il possesso del Regno . Questi, partito da Napoli il 3 gennaio 1735 alla volta di Palermo per essere incoronato, giunse il 16 febbraio a Monteleone (l'attuale Vibo Valentia) ed il 17 "arrivo' a Rosarno, feudo del medesimo Pignatelli, accompagnato dal Senato di Messina e da una caterva di popolo festante, ove dimoro' giorni 15 fino allo spuntare del 5 marzo" . Don Carlo impiego' questo periodo dilettandosi nella caccia alla selvaggina che era abbondante nei boschi di Rosarno. Il 5 marzo si avvio' per Palmi e "nel mezzodi' desino' tostoche' giunse nella terra di Gioja in una baracca ben costruita a guisa di casino" , ospite del principe Gian Francesco Grimaldi. A Palmi, dove prevedeva di stare solo per la notte, il futuro Re vi rimase fino al 18 marzo a causa di un forte vento che gli impediva di salpare per Scilla e poi raggiungere Messina. Trascorse la maggior parte dei giorni andando a caccia nei pressi della contrada San Filippo, il fiume Petrace e la riviera di Pietrenere. Il 19 marzo entrava solennemente a Messina. Il 3 giugno successivo a Palermo veniva incoronato col nome di Carlo III.
LA SUCCESSIONE A CARLO III
Il Regno di Napoli passo', poi, al terzo genito di Don Carlo, Ferdinando IV' il 6 ottobre 1759 il quale, appena di otto anni, venne affidato ad un consiglio di reggenza fino al compimento del sedicesimo anno di eta'. Maria Teresa Grimaldi, principessa di Gerace, incarica, nel 1768, Giovanni Attilio Arnolfini di Lucca "di ispezionare il suo estesissimo Stato feudale in Calabria Ultra", comprendente il principato di Gerace, il ducato di Terranova ed il marchesato di Gioia.
IL FLAGELLO DELLA CALABRIA
Il 5 febbraio 1783, alle 12,45, un fragore formidabile si origino' dalle profondita' della terra e fece traballare ovunque il suolo per due minuti che bastarono a far crollare le case per un'estensione di 120 miglia quadrate ed a seppellire migliaia di persone sotto le macerie. L'epicentro fu a Oppido. A Gioja avvennero fenomeni piuttosto anomali per un ter-remoto. In molti punti del villaggio fecero bruscamente irruzione dal suolo delle correnti di fango abbondantissime, altrove si vi-dero zampillare enormi colonne d'acqua; non fu distrutto ma si perdette ugualmente la maggior parte del vino e dell'olio con-servato nelle 'fosse' che avevano subi'to delle lesioni. Il paese era ridotto in uno sfasciume e si notavano delle misere case vicino al mare. "Le tele de' muri di una torre speculare erano state tagliate in modo che serbavano la figura di una V".
I danni ammontavano a 100.000 ducati ed erano morti 18 abitanti (5 maschi, 6 femmine e 7 bambini). Il mare si ritiro' e formo' onde gigantesche che quando si riversarono sulla spiaggia provocarono l'arresto dei fiumi Petrace e Budello. Le acque di quest'ultimo fuoriuscirono dalla loro sede provocando delle immense paludi infettate di plasmodium malarico. Il 28 marzo seguente un'eccezionale eruzione dello Stromboli coincise con un nuovo forte sisma manifestatosi alle 21 e durato circa 90 secondi.
"L'epicentro di questo nuovo terremoto si era spostato rispetto al precedente; era piu' a nord, verso la congiunzione del massiccio della Sila con l'Appennino". "Innanzi a cosi' immane catastrofe il governo del re Ferdinando IV' fece i piu' lodevoli sforzi per alleviare le miserie delle popolazioni, e non si dimostro' al di sotto del suo compito. Alla prima notizia degli avvenimenti il feldmaresciallo principe Francesco Pignatelli fu inviato in Calabria con titolo di regio vicario straordinario fornito di forti somme di denaro e convogli di viveri, di vesti e di medicinali". Venne istituita pure una Cassa Sacra con tutte le rendite dei "monasteri e conventi e dei luoghi pii, cosi' ecclesiastici come laicali... e incameramento delle proprieta' dei conventi e monasteri della medesima regione". Nel marzo 1786 il Pignatelli riferi' al Ripartimento della Piana che "si era quasi interamente riedificata la citta' di Palmi, che si stava edificando Seminara e che si era formato un magazzino di olii a Gioja". Ma, a parte i piccoli benefici, la Cassa Sacra, per l'inettitudine dei gestori, si trasformo' in una rapina legalizzata tanto che fu soppressa su richiesta del vescovo di Mileto, mons. Enrico Capece Minutolo, nel 1799.
Tratto da "Gioja Tauro - Vicende storiche cittadine da Metauros ad oggi"
di Pietro P. Vissicchio
Edizioni Club Ausonia